L’Italia non sa fare innovazione. Pertanto, niente finanziamenti europei. È questo il dato maggiormente rilevante da leggere nelle graduatorie del programma Horizon 2020 per la “creazione” di sostenibilità e innovazione. Sono pervenute, recentemente, le esclusioni delle PMI italiane[1]. Sono soltanto 2 le imprese nazionali su 71 partecipanti ad essere premiate dall’Europa. Guardando i risultati storici in termini assoluti, scevri da modifiche regolamentari, l’Italia in media valeva il 12,5%. Mentre oggi solo il 2,8%. Il trend negativo, che si registra anche su questo versante, non fa altro che ingrandire quel campanello d’allarme, anticipatore, negli ultimi anni, di tanti eventi spiacevoli.
Che fare? Imparare ad usare bene gli appalti pubblici. Il public procurement è per natura strumento idoneo a creare innovazione e promuovere uno sviluppo sostenibile. La Commissione europea ripetutamente mette in evidenza il ruolo decisivo delle gare nell’ambito della crescita intelligente e sostenibile. Le conferme, in tal senso, sono rappresentate dai primissimi tentativi, risalenti agli anni novanta, di introdurre “criteri ambientali minimi” negli appalti, che con le recenti Direttive 2014/UE 23, 24 e 25 diventano disciplina pienamente operativa. Oppure, sempre in via esemplificativa, l’inserimento nel codice dei contratti pubblici del “partenariato per l’innovazione”, con il quale si istituzionalizza il dialogo tra le amministrazioni pubbliche e i privati, al fine di elaborare soluzioni innovative che soddisfino le sfide tecnologiche, sociali ed ambientali. Nondimeno, la presenza dell’istituto extra codicistico dell’appalto pre-commerciale, con il quale si opera a livello di R&S (fermandosi alla fase precedente alla commercializzazione).
Ad adiuvandum esistono anche policy chiare. Si pensi alla Strategia Europa 2020, che persegue l’obiettivo di realizzare (ahime!) entro l’anno prossimo, un’economia più intelligente (attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dell’innovazione), più sostenibile (verde, efficiente nella gestione delle risorse e competitiva) e più inclusiva (volta a promuovere l’occupazione, la coesione sociale e territoriale). È patente, dunque, il ruolo cruciale della Pubblica Amministrazione. Il grado di innovazione del prodotto (o processo) dipende dalla qualità della commessa. È la PA (committente) che attraverso gli appalti indirizza l’economia e le imprese. Infatti, seguendo le più semplici regole economiche (senza voler in questa sede valutare l’impatto degli istituti giuridici sui sistemi economici) se il richiedente si mostra conservatore, l’offerente non si sente incentivato a innovare. Una domanda pubblica di qualità, produrrà inevitabilmente offerte private innovative. In attesa dell’ulteriore riforma del codice degli appalti, figlia dell’ennesima stagione riformatrice, l’Italia non ha ancora dimestichezza con gli appalti.
Eppure questo Paese, dall’Unità ai giorni nostri, è stato più volte vittimizzato da, piccoli o grandi, tangentisti capaci di aggirare norme e regole morali pur di assegnare contratti pubblici. Esiste un proverbio che rende bene lo stato dei fatti: mentre il medico studia, il malato muore. Questa volta la diagnosi è chiara. E la cura? Sicuramente è più di una. Gli economisti dimostrano, ad esempio, come l’”inversione” delle politiche per l’innovazione dall’offerta alla domanda produrrebbe buoni frutti. Ma una prima cura tampone si chiama “procurement manager”: professionisti degli acquisti pubblici sottoposti a carriera, come militari o magistrati. Il Legislatore può solo scegliere di innovare. Evidentemente, oggi, i ruoli del medico e del malato coincidono.
Vincenzo Pugliese, avvocato amministrativista
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